Perché la psicologia non può fare a meno della religione ?
“La psicologia, sia come scienza che come pratica professionale, non può evitare la molteplice influenza della religione ne dovrebbe tentare di farlo. Piuttosto, la psicologia dovrebbe sforzarsi di dare ragione, di offrire una giustificazione teoretica, del suo inevitabile intreccio con la religione. Dovrebbe fare questo come caratteristica necessaria del suo dover essere, essere nello stesso tempo scienza e attività professionale concepita al servizio della persona umana” (Browning, 1996).
Quando la psicologia, come disciplina o professione, ha interagito con la religione, questo è avvenuto[1]: a) attraverso lo studio scientifico della religione da parte degli psicologi, definito come Psicologia della religione[2]; b) quando la psicologia ha fornito alla religione utili informazioni psicologiche per guidare la pratica della cura pastorale; c) quando ognuno dei quattro maggiori paradigmi storici della psicologia (psicanalisi, comportamentismo, psicologia umanistica, cognitivismo) ha “contribuito” a rivedere, reinterpretare, sostituire o eliminare le tradizioni religiose già stabilite; con l’errore, quindi, di dare origine a nuove prospettive che non tengono conto dei valori fondamentali della religione.[3]
La psicologia, forse, mossa anche lei da quelle che possono essere definite “grandiose asserzioni monistiche”[4], in nessuna delle tre modalità, ha ammesso le moltleplici influnze e gli inevitabili intrecci con un’antropologia cristiana/ebraica.
Ma, quali vantaggi otterrebbe la psicologica pratica da un’antropologia filosofica orientata religiosamente?
Prima di tutto, c’è il vantaggio di rendere esplicito ciò che è implicito in queste teorie. Se ci sono metafore profonde nelle teorie psicologiche, un’antropologia filosofica orientata religiosamente dovrebbe aiutare ad identificarle per ulteriori analisi critiche. Un confronto critico è possibile tra le metafore profonde implicite delle psicologie moderne e quelle delle tradizioni ebraiche e cristiane. Molte delle questioni che dividono le diverse scuole di psicologia non sono di natura strettamente empirica; esse sono filosofiche e persino di natura quasi-religiosa. Un’analisi di queste psicologie dalla prospettiva delle antropologie religiose occidentali può essere utile nel ritrovare alcune origini dei loro contrasti.
Un secondo vantaggio per la psicologia, messa in costante confronto con un’antropologia filosofica radicata religiosamente, è quello di vedersi arricchita sul piano della sua ricerca. Per esempio, le classiche espressioni religiose ebraiche e cristiane, non sono mai state esclusivamente ebraiche e cristiane. Sono state ebraico-greche o cristiano-ebraico-greche. Cioè, hanno fatto sintesi di diversi elementi religioso-culturali. Il congiungersi della razionalità greca con la rivelazione ebraico-cristiana ha condotto la maggior parte delle espressioni religiose dell’occidente, in un modo o in un altro, a sostenere che la rivelazione religiosa e la ragione se non sono identiche sono strettamente unite. Quali sono le conseguenze per il comportamento umano dell’affermazione che la razionalità e la religione si sovrappongono? E che cosa accade in queste società quando la ragione e la rivelazione si separano? La psicologia dovrebbe studiare una questione del genere. Non si tratta di un esercizio puramente accademico, ma di un problema pratico di grande importanza. Questo è vero specialmente in un periodo segnato dal declino delle forme religiose più razionali e dall’ascesa di forme di religione individualistiche, mistagogiche e magiche.
L’ultimo e il più importante vantaggio è che la psicologia con un’antropologia filosofica radicata religiosamente potrebbe aiutare a sanare la crescente divaricazione tra la cultura delle professioni psicologiche e quella dei loro clienti. Una ricerca di David Larson (1986), che apparteneva all’Istituto Nazionale di Salute mentale degli Stati Uniti, dimostra che i professionisti della salute mentale negli Stati Uniti sono molto più secolarizzati del resto della popolazione. Mentre il 90% della popolazione generale crede in Dio e aderisce alla religione, soltanto il 43% degli psichiatri crede in Dio e aderisce alla religione. Tra gli psicologi e gli assistenti sociali queste percentuali sono poi significativamente più basse.
Larson e i suoi colleghi hanno, inoltre, evidenziato un abisso culturale che si va allargando tra la sensibilità religiosa dei clienti e quella dei professionisti clinici che li seguono. Questo divario culturale ha condotto ad una situazione di sfiducia nella gran parte della popolazione costituita dai clienti verso le professioni della salute mentale. Questo, a sua volta, sta provocando negli Stati Uniti l’emergere di una istituzione alternativa di salute mentale, la cosiddetta psicologia religiosa o cristiana, che compete con le psicologie e psicoterapie “secolari”.
Tuttavia, visto che le psicologie moderne contengono metafore profonde di tipo quasi-religioso, l’abisso tra clienti religiosi e i loro terapisti secolari, non è poi così profondo. La scissione, dice Browning, è soprattutto tra i clienti religiosi e i terapisti che hanno un gruppo alternativo di metafore profonde di carattere ugualmente religioso[6].
Dunque, la proposta di Browning di situare le psicologie cliniche all’interno di un’antropologia orientata religiosamente, aiuterebbe a colmare questo divario. Aiuterebbe i clinici sia a empatizzare-con che a valutare criticamente i modi di essere-nel-mondo, ispirati dalle religioni occidentali, dei loro clienti. E tutto questo potrebbe avvenire anche senza chiedere agli psicologi clinici di diventare esplicitamente credenti nelle affermazioni dottrinali della tradizione cristiana o ebraica.
[1] Marrozzini C., “Psicologia e Religione. Attualità di un dibattito nella recente letteratura statunitense”, in Orientamenti pedagogici, n.1, 1997
[2] La Psicologia della religione è lo studio, attraverso l’uso di metodi e strumenti psicologici, di ciò che di psichico vi è nella religione. L’oggetto della disciplina non è la religione in quanto tale, né il pronunciarsi sulla verità/falsità dei contenuti della fede, ma è il vissuto psichico del credente e come questo si articola ed interagisce con altri vissuti nell’insieme della personalità e della condotta.
[3] AA. VV., in Marrozzini, op.cit.
[4] Cioè, “affermazioni che incorporano ed esprimono ciascuna la fondamentale realtà sottostante della vita che determina ogni cosa e a cui ogni cosa e correlata, sostenendo ciascuna rigidamente la propria supremazia”(Randall, 1984, p. 109). In questo senso la psicologia ha considerato la religione come un riflesso della dinamiche psicologiche della vita e vede come suo compito quello di condurre queste dinamiche alle proprie origini (ibidem, p.110), mentre la religione, in alcune delle sue forme dogmatiche ha considerato la psicologia come espressione della fede corrotta dell’uomo in se stesso più che in Dio, e dunque una pratica umana da evitare o come un semplice strumento che serve a condurre l’uomo a riconoscere i suoi peccati ed il suo bisogno di fede nel perdono divino (ibidem, p.109).
[5] Browning, 1996, in Imoda F., (a cura di), Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna 1997
[6] Per i due studi che considerano la moderna psichiatria dalla prospettiva dei risultati che le ricerche di Larson hanno portato all’attenzione pubblica, si veda: Browning, Jobe, Evison, 1990; Browning, Evison, 1991.