Dal dibattito sul “Diritto di cronaca e deontologia: il rispetto dei soggetti deboli protagonisti e fruitori dell’informazione” tenutosi a Bari il 12.06.09 presso l’Ordine dei giornalisti:

 

 

Fantasie suicide, ambivalenza ed “Effetto Werther”

 Dott. Pasquale Laselva

 

Secondo il rapporto Eurispes 2008, ogni 40 secondi una persona si toglie la vita e ogni 3 secondi si verifica un tentato suicidio nel mondo. Ogni anno circa un milione di persone muore per suicidio. Il fenomeno rappresenta il 3% fra le cause di morte. Il suicidio è la prima causa di morte tra gli adolescenti sotto i 15 anni in Cina, Svezia, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. Il suicidio è la prima causa di morte tra gli adulti, in particolare maschi. Il fenomeno cresce con l’aumentare dell’età. Gli uomini si tolgono la vita in misura tre volte maggiore rispetto alle donne, ma queste ultime tentano il suicidio più degli uomini. L’Italia mostra il più basso numero di suicidi (11,4 per i maschi e 3,1 per le femmine) rispetto a Francia, Germania, Irlanda e Spagna. Occorre comunque considerare che i dati sul fenomeno non sono omogenei a causa della difficoltà di raccolta e quindi quelli riferiti al nostro Paese sono fermi al 2004. Se si prende in considerazione il periodo che va dal 2001 al 2004, il numero dei suicidi è aumentato costantemente (da 2.819 a 3.265). Le regioni con il maggior numero di suicidi sono la Lombardia, il Veneto e il Piemonte. All’origine del gesto troviamo la depressione o eventi traumatici mai superati. Tra i giovani, il fenomeno è più variegato e sempre più diffuso. Si nota una frequenza di casi legati alle difficoltà incontrate in ambiente scolastico, legate alla non appartenenza al gruppo dei pari ed al rendimento scolastico. In alcune situazioni, il suicidio è connesso all’estromissione dal gruppo, che sfocia in burla o isolamento, provocando nel giovane un senso di disagio e depressione. Le motivazioni di natura economica, sono legate alla perdita del lavoro, alla difficoltà nel pagare l’affitto o il mutuo, ai debiti accumulati, ad una situazione di precariato che spegne ogni speranza per il futuro.

Più che i fattori che provocano il suicidio bisognerebbe, tuttavia, cercare di capire la condizione psichica di una persona che in presenza di certi fattori, tende al suicidio. Il suicidio, infatti, viene interpretato non come una decisione libera ed espressione della volontà di una persona, ma come il risultato di un processo patologico, in cui il dolore mentale, mostrandosi sempre più insopportabile sbarra la strada a qualsiasi apertura esistenziale.

Come scrive Pavesi (2004)[1], vi sono casi in cui il suicidio è determinato da un impulso improvvi­so, dovuto spesso a un momento di disperazione, che spinge ad agire come in un raptus e non consente una riflessione ade­guata; però, normalmente, le idee di suicidio si sviluppano nel corso di un lungo processo. Le difficoltà che caratterizzano la crisi rendono sempre più problematica l’esistenza, privano della gioia di vivere e possono modificare l’atteggiamento nei confronti della morte, che cessa di essere considerata come un male, ma viene vista sempre più come liberazione da sofferenze e tribolazioni. Progressivamente cambia anche il rapporto con la propria morte, l’individuo ha sempre più l’impressione di non avere più nulla da perdere ed è disposto a correre rischi sempre maggiori. In una fase più avanzata la morte non è più solo un’eventualità che non fa più paura, ma diventa addirittura desiderabile e viene presa in considerazione l’idea di togliersi la vita. In molti casi le fantasie di suicidio vengono confessate con sensi di colpa, sono vissute come momento di debolezza e di sconforto. Con il tempo le fantasie diventano sempre più precise e concrete, iniziano i preparativi: alcuni fanno una scorta di determinati medicinali, altri si procurano un’arma. Questo processo è caratterizzato spesso, più che da una decisione chiara e univoca, dall’ambivalenza, da dubbi e da ripensamenti. Quanto più concreti diventano i preparativi, quanto più si avvicina il giorno scelto, tanto più intenso diventa il confronto con il pensiero della propria fine. La sensazione di sollievo fornita dall’idea di poter uscire da una situazione difficile lascia spesso il posto ad altri sentimenti, a sensi di colpa nei confronti di alcune persone, ma anche un attaccamento alla propria esistenza. Tale ambivalenza persiste fino all’ultimo momento, come nel caso di chi dopo aver deciso nel corso di un processo durato giorni o settimane di gettarsi in un fiume, arrivato su un ponte, resta come bloccato, guarda nel vuoto a lungo, incapace di compiere l’ultimo passo. Nella maggioranza dei casi la persona vorrebbe continuare a vivere, ma non ritiene sopportabile la sua condizione momentanea e non intravede neanche la possibilità di un cambiamento. Sull’ambivalenza – continua Pavesi – influiscono tendenze contrastanti mediate dall’educazione, da fattori culturali ma anche dai mezzi di informazione che forniscono interpretazioni differenti sul senso della situazione attuale e sul senso del suicidio. In questo ambito si situa anche il fenomeno particolare di chi si toglie la vita imitando un suicidio descritto, e spesso enfatizzato, dai mezzi di informazione

L’influenza malsana dei media sui casi di suicidi seriali, d’altronde, è ben nota agli esperti: si chiama “Effetto Werther” o anche “Copycat Effect“: l’emulazione di un suicidio provocata dalle notizie trasmesse dai mezzi di informazione.

L’espressione “Effetto Werther” è legata al romanzo I dolori del giovane Werther di J. W. Goethe  del 1774, in cui il protagonista si suicida perché innamorato di una ragazza legata a un altro. Negli anni seguenti alla pubblicazione del romanzo si susseguirono molti suicidi in giovani che avevano letto il romanzo. L’effetto si ripropose nei Paesi nei quali vennero pubblicate traduzioni del libro.

Successivamente si ebbero altri casi di suicidio provocati dalle notizie trasmesse non solo dalla stampa ma anche dalla tv e – recentemente – anche da Internet. In Germania, tra il 1981 e il 1982, fu trasmesso dalla televisione tedesca un telefilm in sei puntate intitolato “Morte di uno studente” (Tod eines Schülers). La storia – non realmente accaduta – del suicidio, apparentemente inspiegabile, di uno studente diciannovenne gettatosi sotto un treno viene esaminata in ogni puntata in rapporto a una problematica diversa: dietro un’apparente normalità compaiono gravi problemi nei rapporti con i genitori, con gli insegnanti, con gli amici, con la ragazza, e così via. Alcuni studiosi (A. Schmidtke e H. Häfner) hanno dimostrato che il numero di suicidi di persone che si erano gettate sotto il treno era aumentato nel periodo di settanta giorni durante e immediatamente successivo alla trasmissione del 1981.

In Italia, nella notte fra sabato 1 settembre 1990 e domenica 2, a Prato allo Stelvio, in provincia di Bolzano, tre ragazzi si sono uccisi insieme convogliando i gas di scarico nell’abitacolo dell’auto e hanno lasciato come lettera d’addio un biglietto con scritto “Questa vita non ha prospettive” (Il Giornale, 3 settembre 1990). Il tragico episodio ha avuto vasta eco sulla stampa, che ha cercato di esaminarne le ragioni. Nelle settimane seguenti la stessa stampa segnalava quasi quotidianamente suicidi praticati con la medesima tecnica.

Dicembre 1997: Michael Carneal, studente di una high school del Kentucky, spara sette colpi con una semiautomatica ad un gruppo di studenti uccidendone 3 e ferendone 5. Dirà poi agli investigatori di averlo visto fare in una scena del film “Basketball Diaries”, in cui il protagonista, interpretato da Leonardo Di Caprio, irrompe in una classe e uccide diversi studenti con un fucile (Grace, J., “When the Silence Fell”, Time, 15 Dicembre 1997).

Gennaio 1998: Il quattordicenne Michael Swailes si suicida gettandosi sotto a un treno seguendo le istruzioni scaricate da un sito studentesco della Duke University, in cui si descrivevano 40 diversi metodi per suicidarsi. (“Web site back after boy’s death”, Daily News, gennaio 1998).

Maggio 1998: a Ocean City, nel Maryland, il dodicenne Darron Lawrence Green si suicida e lascia una nota citando South Park come causa del suo gesto. Menziona in particolare il personaggio Kenny, un ragazzino che muore violentemente in ogni episodio della serie. Darron non aveva mostrato alcun segno di depressione prima di compiere l’atto (Daily News, 2 maggio 1988).

Nello stesso anno, l’undicenne Bryce Kilduff si impicca. La polizia sospetta che anche lui stesse cercando di imitare imitate Kenny di South Park. La madre conferma, dicendo che il giorno prima di impiccarsi stava imitando Kenny e che, in risposta ai suoi amici, che dicevano: “Se sei Kenny, allora devi morire”, aveva detto: “và bene, tanto sarò di ritorno la prossima settimana”. La polizia ha anche trovato un disegno di Bryce in cui c’era raffigurata una auto-impiccagione (NBC Today, 11 ottobre 1999).

Maggio 1999: Un bambino di 7 anni di Dallas, in Texas, uccide accidentalmente il suo fratellino di 3 anni cercando di imitare una mossa di wrestling che aveva visto in televisione.

Maggio 1999: Il quindicenne T.J. Solomon spara a 6 compagni di classe alla Georgia high school. Le autorità trovano una lettera sotto il suo letto che esprime ammirazione per i due teenagers che avevano ammazzato 12 studenti, un professore e poi si erano suicidati alla Columbine High School di Littleton, Colorado, un mese prima (il caso ha avuto ampio risalto sui mass-media ed ha anche ispirato il film-documentario di Michael Moore “Bowling At Colombine”).

2007 in Francia: una ragazza inglese, nipote di un noto parlamentare, ha ucciso il suo amante sostenendo di essersi ispirata al delitto avvenuto a Perugia di Meredith Kercher, a cui i mass-media hanno dato molto risalto.

Novembre 2007 a Roma, un uomo ha sparato da un balcone con una carabina, colpendo un bambino di 10 anni, illeso grazie al pesante giubbotto che indossava. L’uomo è stato individuato e fermato dai carabinieri. Aveva appreso che solo due settimane prima, l’ex tiratore scelto dell’esercito A. Spagnoli aveva aperto il fuoco dal terrazzo della sua abitazione alle porte di Roma, uccidendo due persone e ferendone sette (La Repubblica 04.11.2007)

In Giappone dove negli ultimi anni è nato il fenomeno dei suicidi collettivi, giovanissimi che si contattano tramite siti internet per togliersi la vita in gruppo. Nel 2004, dopo che i media hanno cominciato a dare maggiore risalto al fenomeno, i casi sono sensibilmente aumentati.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo aver ricordato il ruolo importante dei mass media nel “provocare o incoraggiare un comportamento suicida”, raccomanda “nell’interesse della prevenzione dei suicidi che i mezzi di comunicazione esercitino estrema prudenza e riservatezza nelle notizie riguardanti suicidi, nella pubblicazione di articoli o nella messa in onda di programmi riguardanti casi di comportamento suicida. Dovrebbe essere stabilito che tale materiale e il modo di presentarlo dovrebbe essere discusso con esperti di comportamento suicida e di prevenzione prima di essere reso pubblico”. A tal proposito la stessa OMS già nel 2000 elaborava delle linee guida per i professionisti dei media circa la prevenzione del suicidio.

Di seguito alcune raccomandazioni che possono essere utilizzate quando in un servizio si parla di suicidio[2]:

1) domandarsi se il suicidio costituisce una notizia;

2) non presentare il suicidio come un atto misterioso in un individuo apparentemente in salute e di successo;

3) indicare invece che il suicidio è una complicazione in diversi tipi di patologia mentale, molte delle quali sono trattabili;

4) non presentare il suicidio come un modo ragionevole per risolvere i problemi;

5) non presentare il suicidio in stile eroico e romantico;

6) fare particolare attenzione a fotografie della vittima e a quelle relative al dolore dei parenti e amici al fine di evitare un’identificazione con la vittima e glorificarne inavvertitamente la morte;

7) evitare le descrizioni particolareggiate sul metodo di suicidio e sul luogo dove è avvenuto;

8  limitare lo spazio riservato a storie di suicidio; evitare titoli di prima pagina;

9) evitare un inutile sensazionalismo; storie ben riportate sono a volte danneggiate da titoli inappropriati;

10) fornire informazioni adeguate su risorse disponibili per il trattamento e la prevenzione del comportamento suicidario.

Concludendo: il giornalista dovrebbe mediare tra la condizione psichica dell’interlocutore e il bisogno – spesso narcisistico – di comunicare tutto e a tutti i costi. Molti giornalisti quando scrivono di suicidio oscillano fra la tendenza a ricercare la causa di tale gesto e quella di considerarlo come un atto totalmente incomprensibile, trascurando, di solito, proprio l’aspetto che c’è sotto a un tale gesto, la profonda sofferenza. Il candidato suicida è una persona che ha bisogno di aiuto per ritrovare il senso della vita e non di incoraggiamento o di aiuto tecnico per mettere in atto il suicidio. Esiste dunque la necessità di creare una cultura all’interno dei media che permetta il loro utilizzo nella lotta contro il suicidio e questo dibattito “Diritto di cronaca e deontologia: il rispetto dei soggetti deboli protagonisti e fruitori dell’informazione”, organizzato dal dottor Enzo Quarto, è certamente la testimonianza di un chiaro messaggio educativo.

[1] Pavesi E., in Ricerca di senso, Vol. 2, n.1 (pp. 7-18)

[2] Gould M.S. (2001), Suicide and mass media. Annals of the New York Academy of Sciences, 932, pp. 200-221

 


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